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Matilde Leonardi: una scienziata per la vita
Una scienziata che ama la vita, che non ha paura della morte, che studia l’impatto della malattia in tutto il mondo, che è consapevole dell’importanza dell’interazione con l’ambiente, con uno sguardo attento su disabilità, diritti e salute pubblica.
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Matilde Leonardi, un’eccellenza per la ricerca in Italia

Premiata in Campidoglio tra le 100 eccellenze italiane per la Ricerca, Matilde Leonardi è specializzata in Neurologia e Pediatria, è Dirigente Medico neurologo presso la Direzione Scientifica della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano ove dirige anche il Coma Research Centre-CRC.
Ha lavorato presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità e da anni si occupa come ricercatore e come clinico di disabilità, salute pubblica, invecchiamento, malattie croniche e lavoro e politiche socio-sanitarie in Italia e all’estero.
Partner di progetti di ricerca nazionali ed internazionali, è membro del Comitato Direttivo del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica.
Ha numerosi incarichi per la valutazione della disabilità nel mondo, sull’uso delle classificazioni OMS, sul diritto alla cura di pazienti neurologici e sui diritti delle persone con disabilità.
Dal 2011 è Membro Corrispondente dell’Accademia Pontificia per la Vita.
Una scienziata dalla forte carica vitale, che studia l’impatto della malattia in tutto il mondo, che è consapevole dell’importanza dell’interazione con l’ambiente, che ha un occhio di riguardo per le donne e, in particolare, per le bambine.
Ci racconta “il metodo” del suo successo.
Come ha vissuto il premio come eccellenza italiana nella Ricerca?

Mi ha nominata il Ministero della Salute e per me è stato davvero un grandissimo orgoglio, sono andata a prendere il premio con mio figlio e l’ho dedicato alla mia famiglia.
Volevo però condividerlo anche con i colleghi e ho iniziato a dirlo a coloro con cui ho un rapporto più stretto, ma quando hanno reagito con “Come mai proprio a te? Forse hanno sbagliato?” ho smesso. Gli amici però mi hanno dato un ritorno molto affettuoso. 
E’ stato un riconoscimento superiore a ciò che mi aspettavo, una grande soddisfazione, soprattutto tenendo conto che la mia ricerca è molto particolare perché mescola elementi quantitativi, qualitativi e di neuroscienza
Mi definisco una hippy per le neuroscienze e una yappy per le scienze sociali. La persona malata deve poi  tornare nel mondo, lavorare, fare l’amore e a me interessa anche tutta questa parte. Sondo, pubblico i miei studi, vinco milioni di euro per i progetti di ricerca.
La ricerca un po’ la guidi e un po’ ti porta, così “sono finita” ad esplorare le malattie croniche ed il lavoro, ho istituito un master in Disability Manager all’Università Cattolica.

Fare ricerca per me significa far avanzare sempre un po’ di più ciò che esiste già, che sia la scoperta di un gene, un nuovo strumento o linee guida per manager che hanno in azienda persone con malattie croniche.
 Quale è per lei la cosa più naturale in una relazione di cura?

Prendere la mano ad una persona quando sta piangendo che, nella ricerca scientifica, significa strutturare quella presa di mano dandole un significato e facendola valere affinché si trovi una cura.

Il dolore fa paura quando il tuo è il ruolo di medico, di colui che deve curare: guardare il dolore, guardare la morte, parlarne; dobbiamo essere consapevoli che siamo parte di un processo dove c’è la vita, la morte, tutto. Il medico, meglio ancora se guarisce ma, soprattutto, deve esserci.

A volte ho avuto anche il dubbio che non dovessi studiare medicina, che tutte le mie conoscenze mediche forse non servono neanche a tanto.
Forse la classe medica ha illuso circa l’avere sempre una risposta? 

L’aumento delle malattie croniche sta cambiando completamente lo scenario scientifico, il modello biomedico puro, seppur tra i più grandi progressi dell’uomo, quello in cui l’essere umano è una macchina guasta io aggiusto i bulloni e la faccio ripartire, ha mostrato i suoi limiti.
Ha funzionato nella chirurgia, nell’anestesia, nelle malattie infettive, ma anche in quest’ultime sta già iniziando ad avere il fiato corto.
Il modello biomedico fallisce su quelle che sono considerate “le epidemie silenziose del nuovo millennio”, ad esempio l’Alzheimer, di cui cerchiamo l’origine.
Il futuro si presenta con grandi speranze rispetto all’invecchiamento in cui sembra che la parola gioia sia un lusso ed un privilegio, invece dovrebbe essere un millennio di gioia. Abbiamo molte cose positive, nuove scoperte, ma forse le buone notizie annoiano.
Quello di cui abbiamo bisogno oggi nei paesi occidentali è un ritorno ad una medicina più “bio-psico-sociale”, più consapevole dell’interazione dell’uomo col suo ambiente.
Se oggi si vive trent’anni con la stessa malattia, il medico deve riconquistare una relazione non basata sulla salute intesa come mancanza di malattia altrimenti non c’è più connessione perché non c’è guarigione. 
 

Essere donna ricercatrice è più difficile?

Per me la donna è in assoluto privilegiata perché può essere madre, cosa che l’uomo non può fare. Nel campo della ricerca non farei distinzioni di generesemmai tra stupidi ed intelligenti.
A pari competenze non mi sembra ci sia disparità, forse le donne ricercatrici sono “privilegiate” rispetto ad altre categorie perché ciò che conta è se sei in grado di mettere insieme dati e tirarne fuori una sintesi, avere un’intuizione, che talora può nascere dalla conoscenza e dalla preveggenza.
Semmai, tra uomo e donna, ci possono essere differenze nella carriera perché manca il supporto esterno per poter conciliare lavoro e famiglia. 
 

Come è vissuta la disabilità nel mondo?

Negli ultimi anni sono stata in più di sessanta Paesi ad osservare la situazione politica della disabilità ed ho visto che le richieste sono uguali ovunque.
Mi colpiscono più le uguaglianze.
Ho una professione rispettata in tutto il mondo, una nazionalità molto amata e questo facilita. Da parte mia quando viaggio cerco soprattutto di conoscere le persone, entrare nelle case, visitare gli ospedali, mangiare insieme a medici ed infermieri, capire come è la malattia nel singolo posto, come viene vissuta e gestita.
Parto dalla Convenzione Onu dei Diritti delle Persone con disabilità e guardo come si comportano rispetto a questo, eseguo un monitoraggio e poi se posso parlo a favore delle donne.
 

Il rapporto tra medicina e qualità della vita qual è?

Ho lavorato molto anche sugli “stati vegetativi”, persone con il più forte bisogno di facilitatori ambientali.
Nel mondo della disabilità loro sono gli estremi. Sono entrata a studiare questo contesto da un punto di vista inusuale, non partendo dalla domanda neuroscientifica “cosa è la coscienza” ma “come posso migliorare la cura e la qualità della vita” di questi pazienti silenziosi, guardati da pochi, che non interessano a nessuno e che hanno bisogno di tutto.
Parto dal concetto che l’uomo non è la malattia che ha ma che il suo problema si esplica in diversi gradi di severità a seconda dell’ambiente; l’ambiente può modificare lo stato di salute ed il metodo da applicare, cosa che ha condizionato tutta la mia vita, che ho sviluppato e messo in campo continuamente, riguarda gli interventi da fare in questa interazione.
Rappresento il Besta, un Istituto di Neuroscienze eccezionale nello studio del cervello attraverso la neurofisiologia, la neuroimaging, la genetica, la clinica, la semeiotica e ritengo naturale occuparmene, non posso che cercare di portare un contributo di avanzamento, nonostante le critiche sul fatto che non si va avanti, non si scopre il farmaco decisivo, un’idea di biomedicina che, come ho detto, è fuori moda.
La coscienza, così come il cervello in generale, è tanto appassionante quanto misteriosa ma continuando a studiarla anche su questi pazienti “di nicchia” possiamo trovare elementi utili per molti altri. 
 Uno sguardo alla salute pubblica

A me piace fare la neurologa in questo modo: guardare l’impatto delle malattie, l’impatto economico, quello dei numeri; come questi numeri possono e devono influenzare la politica e a loro volta come ne possono essere influenzati.
Chiarisco meglio con un esempio: su quello che si chiama global burden of disease, ovvero una serie di articoli che analizzano tutti i dati del mondo e danno i trend, ho analizzato un periodo che va dal 1990 al 2019 e visto che nella fascia di età 0-4 anni tutte le campagne di lavoro (nutrizione, vaccinazioni, ecc…) hanno fatto sì che la mortalità fosse drasticamente ridotta.
Purtroppo si vede altrettanto chiaramente che negli adolescenti la mortalità è severamente aumentata a causa di lesioni autoinflitte, incidenti stradali, disordini psichiatrici inclusi i disturbi del comportamento alimentare. Studiando questi flussi capisci che alla politica devi sollecitare interventi specifici, magari su fasce trascurate, che sollevano però lo stato di salute di tutta la popolazione.
Guardare la salute vuol dire guardare l’umanità, definire le priorità. Non si fa salute senza politica ed io con i politici ci parlo spesso.
 Bambine e disabilità nel mondo

Se si decide, in un certo posto, di lavorare sui più deboli io guardo le bambine con disabilità, che sono la priorità a livello mondiale, perché se sei bambina ed in più disabile in alcuni luoghi non sei neanche persona, e se non sei persona giuridicamente non hai neanche l’obbligo di andare a scuola e se non vai a scuola sarai sempre una schiava.