Intervista Vanity Fair/8 Leonardi.vanityfair

Qual è stato il suo caso clinico che lei si porta nel cuore?

«Ce ne sono diversi. Ma uno è speciale, ed è un ragazzo in stato vegetativo che non conosco. A 18 anni, 3 anni fa, ha avuto un incidente in moto e da allora ha un grave disturbo della coscienza. La sua mamma, una donna straordinaria, mi volle incontrare a tutti i costi due anni fa dopo avermi sentita parlare a un congresso di familiari di pazienti in coma. Io da diversi mesi non vedevo pazienti e tantomeno familiari, ero in un momento difficilissimo della mia vita e non riuscivo a essere convincente, perché per assorbire il dolore degli altri devi avere spazio dentro, e io non ne avevo. Facevo solo ricerca e i pazienti li vedevano i miei collaboratori. Questa madre arriva, pretende con disperata forza di parlarmi. La incontro. E mi parla di suo figlio, e allora dopo mesi in cui mi sembrava di non sapere, di non potere parlare più, perché per dire a una madre che suo figlio è stupendo davvero, malgrado sia in stato vegetativo, bisogna crederci e saperlo dire, ecco invece che parlo. Come credo ogni medico sappia fare quando parla davvero, in modo completamente, sinceramente, professionalmente umano. Il ragazzo ha un punteggio sulla scala di gravità del coma molto grave. Ma la madre mi guarda serissima e mi dice: “Dottoressa una scala si può anche salire e non so come ma mio figlio la salirà. E anche noi”. Da allora lui, la madre e anche io, ogni giorno a nostro modo saliamo la nostra scala. Sarò grata per sempre a questa madre che tramite il suo bellissimo figlio, tuttora con disturbo della coscienza grave, mi ha ridato le parole per parlare ogni giorno, credendoci, ai tanti che devono credere che una scala, per quanto ripida, si può salire».

Come si fa fronte ai fallimenti?

«Considerandoci esseri relazionali e come tali appartenenti a un gruppo di individui fragili che possono sbagliare, per causa propria o altrui o delle circostanze, ma che nel fallimento non perdono un grammo della loro identità. Il fallimento è parte della vita e, come dice il recentemente scomparso Leonard Cohen, il sole entra solo attraverso le crepe. Il fallimento non è la fine di un percorso, ma l’inizio della ricerca di una nuova strada. Per capirlo talvolta servono tante lacrime e la famiglia e gli amici servono per darti una pacca sulla spalla anche in quei momenti. Lo scrittore Giuseppe Pontiggia diceva che il coraggio è anche vincere l’attrazione per il proprio fallimento, coraggio è non compiangersi e non restare lì».

Parlando invece di ricerca scientifica: come sono i finanziamenti? Da che parte arrivano soprattutto?

“Nella nuova economia della conoscenza, non si può competere e crescere senza ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, senza innovazione non c’è futuro e la ricerca è l’avvenire, ma i fondi in Italia sono pochi, frammentati tra bandi diversi, e la competizione europea è diventata feroce. L’Europa però è uno dei più importanti bacini di fondi per la ricerca: ciò nonostante solo il 9% dei progetti presentati vince e i finanziamenti vanno spesso a gruppi o persone già note. È abbastanza difficile infatti entrare da ricercatori junior nelle scie dei finanziamenti sia italiani che europei. Scrivere un progetto implica mesi di lavoro e il tasso così basso di successo porta a una gran perdita di ore/uomo. I ricercatori italiani sono bravi ma manca il coordinamento a recuperare se non di più, almeno tutti i soldi che l’Italia versa all’Europa, e ancora siamo sotto rispetto a quanto diamo. Un maggior coordinamento tra Roma e i vari centri di ricerca e quindi una migliore governance centralizzata aiuterebbe ad avere una strategia più vincente. Stiamo migliorando e lo vedo bene poiché col mio gruppo da 13 anni vinco un progetto europeo o come coordinatore o come partner quasi ogni anno. Ho seguito e segue quindi queste vie di finanziamento ma non basta ed è sempre più difficile vincere».